Gli odori fanno ritrovare cose, persone, tempi.
Il pisto dei rococò e dei mostaccioli rimanda alle magie delle feste, forse più quelle immaginate che quelle reali, e quindi ancora più belle.
Cercando notizie sui rococò della tradizione napoletana, ci si imbatte in molte citazioni che si riferiscono ad una data ben precisa, il 1320, e in un luogo ben identificato, il Real Convento della Maddalena, come inizio, invenzione, di questi dolci odorosi.
Ancora un convento, ancora delle monache, come quelle della sfogliata, che mettono insieme ingredienti con una sapienza tramandata da secoli, usando spezie che sanno di lontani Orienti, di carovane, di lunghi viaggi per mare.
Le feste sono passate, la vita di sempre ha ripreso il suo scorrere quotidiano.
Però, immaginatevi di sera, dopo cena, con un poco di vino rosso ancora nel bicchiere.
Spezzate un rococò rimasto da Natale, intingetelo nel vino, aspettate mezzo minuto e poi date un morso alla parte imbevuta. Sentite il dolce mescolarsi con il gusto secco del vino, e gli odori riempire la bocca.
I profumi fanno ritrovare cose, persone, tempi andati.
Struffoli dunque, ed è Natale, come Pastiera è Pasqua. Belli, biondi, variopinti, croccanti, appiccicosi. Che spettacolo! I multicolore diavolilli sottolineano il clima festivo (che sono i piccolissimi confettini che si usano solo per decorare, di sapore quasi inavvertibile).
Gli struffoli, fatti da un impasto di farina, uova ed aroma di liquore, sono tagliati a tocchettini, fritti ed amalgamati con miele, fanno parte della nostra storia, ricordano le nostre origini greche - il nome deriva da strongulos - e ci riportano al fantastico Oriente, ai suoi dolci caramellosi, grondanti miele.
La Vellutata di Augustus
Una cassata al cioccolato, da ricordare.
Gli Arabi introdussero in Sicilia, fra il 900 ed il 1100, un dolce di pasta frolla ripieno di ricotta addolcita con miele.
In Sicilia, il dolce è diventato la cassata siciliana, su pan di Spagna, con pasta reale, canditi e cioccolato.
La cassata è poi arrivata a Napoli, in una versione meno barocca, soprattutto, senza il naspro verde che caratterizza la preparazione alla siciliana.
Gli chef pasticcieri di Augustus hanno messo a punto una versione al cioccolato della cassata napoletana, e l’hanno chiamata Vellutata.
Due strati di pan di Spagna al cioccolato, bagnato con il liquore Strega, in mezzo uno strato di farcitura tipica della cassata napoletana (ricotta, zucchero e gocce di cioccolata).
Quanto è spesso lo strato di ricotta? Beh, dipende da quanto buona si vuole fare la cassata. Da Augustus, i due dischi di pan di Spagna sono sottili, lo strato di farcitura è bello doppio.
Il bordo è fatto di pasta di mandorle e cioccolato. La faccia superiore viene coperta da una glassa al cioccolato, una ganache (dicono così gli chef, che tendono ad usare i termini francesi originali) lucida, con applicazioni sempre di cioccolato fondente (alberelli, stelle comete, Babbi Natale, presepi).
Gli ingredienti della ganache al cioccolato comprendono cose buone come cioccolato fondente, panna, cacao, latte, zucchero, e gelatina per dare consistenza, combinati in modo da avere una crema liscia, voluttuosa, dall’aspetto vellutato: ed ecco il perché del nome.
Il dolce, nella sua veste finale, presenta una sinfonia di colori caldi: il testa di moro brillante della ganache, il marrone più chiaro del bordo, il cioccolato fondente delle decorazioni.
La Vellutata è una esclusività Augustus, la trovate al negozio in via Toledo.
Il panettone natalizio
Eh già, è Natale, anche quest’anno.
Mettetela come volete: crisi si, crisi no, le elezioni sempre presenti da qualche parte, le minacce terroristiche, la crisi climatica e tutto il resto appresso; ma quando arriva dicembre, è Natale. È rassicurante.
A Natale si mangia da giorno di festa. I frutti di mare, il baccalà fritto, il capitone, l’insalata di rinforzo, la minestra maritata, e i dolci: a Napoli, a conclusione del pasto, sulla tavola arrivano i dolci di Natale tipici ed il panettone, due tradizioni ormai stabilmente insieme.
Il Panettone, nato a Milano, secondo una leggenda alla corte di Ludovico il Moro nella seconda metà del 1400, è diventato non solo il dolce natalizio nazionale, ma rappresenta ormai l’Italia nel mondo.
La produzione del panettone segue ormai una prassi ufficiale, definita (immaginate un po’) da un decreto ministeriale del 2005, in cui per alcuni “prodotti dolciari da forno” sono stati stabiliti i requisiti minimi perché un panettone, un pandoro, una colomba ecc., possano fregiarsi di tale nome (per quanto riguarda ingredienti, proporzioni e metodo di produzione).
La produzione del panettone, in ricercate versioni artigianali, oppure prodotto in grandi quantità da industrie dolciarie, è uscita dall’ambito esclusivamente lombardo, per estendersi in tutta Italia, con risultati a volte eccellenti: il miglior panettone artigianale nel 2016 è stato prodotto da uno chef pasticciere salentino!
Augustus, che quanto a dolci è sempre in prima linea, fa panettoni artigianali da quasi 20 anni. In questo periodo, gli chef pasticcieri che hanno le responsabilità dei laboratori dolciari dislocati nei meandri che si susseguono nel retro del negozio, hanno sempre cercato di migliorare le caratteristiche del prodotto, sia cercando di adeguare sempre meglio la tecnica di produzione agli standard previsti, a maggior ragione dopo le definizione formale del disciplinare nel 2005, sia introducendo varianti, permesse dal disciplinare, in cui nel panettone sono aggiunti altri gusti, profumi ed ingredienti.
Sapete come facciamo il panettone?
L’impasto, la base di ogni prodotto da forno, è fatto con farina doppio zero con aggiunta di lievito madre.
Il panettone, per essere così morbido come lo conosciamo, richiede una lunga fermentazione acida; il termine forse vi dirà poco, ma serve ad indicare un tipo di lievitazione che, innescata da una porzione di pasta conservata dalla lavorazione precedente (lievito madre), dura almeno 24 ore e produce un impasto che, dopo cottura, assume una struttura aperta, leggera … morbida, per l’appunto.
Dopo, la pasta resta a maturare diverse ore in un ambiente con ben definite condizioni di temperatura ed umidità per “evitare di fare la pelle”; poi si fa la “pirlatura” dei pezzi di impasto nei recipienti di fermentazione e cottura (le pirottine) - pirlatura? si, il senso della parola è proprio quello che avete capito, solo che qui ci si riferisce al suo significato originale nel dialetto meneghino di “girare a vuoto”, per indicare il modo di adagiare la pasta nella pirottina. I pasticcieri dicono che si deve “stringere” l’impasto, per eliminare l’aria che potrebbe restare intrappolata e dare delle bolle anomale.
Dopo la cottura, i panettoni subiscono una sorte un poco bizzarra: vengono messi a raffreddare, ma a testa in giù!
Il perché è presto detto. Se non si facesse così, il panettone si appiattirebbe; appena uscito dal forno, la pasta non ha ancora consistenza e la cupola superiore potrebbe collassare sotto il proprio peso; una volta raffreddata, la forma resta inalterata. Ci vogliono 10 ore di raffreddamento per arrivare a fissare la forma finale; a quel punto, il panettone viene chiuso nella sua busta trasparente; il dolce resta protetto con i suoi aromi e pronto per essere degustato.
Oltre alla versione classica con le mandorle in superficie, da Augustus quest’anno si possono trovare anche tante versioni diverse, con gusti scelti qui e là fra i tanti disponibili: cioccolato extra fondente, Limoni della Costiera, Arance di Sicilia, Frutti di bosco, Albicocche del Vesuvio.
Dolci napoletani
Agli Italiani del nord, amanti di Panettone, Pandoro, Panforte rivolgiamo un invito a gustare gli Struffoli, i Mostaccioli, i Susamielli, i Roccocò, ambasciatori della tradizione partenopea e della tipica pasticceria napoletana.
Struffoli dunque, ed è Natale, come Pastiera è Pasqua. Belli, biondi, variopinti, croccanti, appiccicosi. Che spettacolo! I multicolore diavolilli sottolineano il clima festivo (che sono i piccolissimi confettini che si usano solo per decorare, di sapore quasi inavvertibile).
Gli struffoli: fatti da un impasto di farina, uova ed aroma di liquore, sono tagliati a tocchettini, fritti ed amalgamati con miele, fanno parte della nostra storia, ricordano le nostre origini greche - il nome deriva da strongulos - e ci riportano al fantastico Oriente, ai suoi dolci caramellosi, grondanti miele.
Mostaccioli: anche qui l’origine è racchiusa nel nome, che evoca il mosto (in latino mustacea) col quale vengono preparati, insieme a mandorle e alla modernità del cioccolato. La loro forma a rombo ben si sposa con il “divino amore”, la più semplice delle leccornie di questi giorni di Natale: una tenerissima pasta di mandorle con cubetti di arancia, ricoperta di glassa.
Susamielli: dai semi di sesamo, e Sapienze (dal Convento di S. Maria della Sapienza), sono altri numeri del Natale napoletano e ci fanno sapere che, oltre al miele, è la pasta di mandorle la star indiscussa dello spettacolo festivo. I nostri antenati l’hanno opportunamente chiamata “Pasta reale”.
Roccocò: è il più dolce ed il più duro dei nostri dolci natalizi. La sua forma a conchiglia è riassunta nel nome, che si rifà al francese “Rocaille”. È un dolce dall’aspetto interessante, che però non so cura molto del look. Anzi, è vestito in modo da celare accuratamente i tesori che nasconde, o che appena accenna, come quando lascia intravvedere una mandorla birichina che non sta al suo posto. Come sia possibile che una pasta tanto dura da rompere i denti si trasformi in una indimenticabile morbida tenerezza, resta un mistero, anzi un segreto che bisogna lasciare a chi lo prepara.
E perciò, dopo aver narrato storie sull’origine di ognuno, da buoni napoletani desideriamo offrire a tutti voi struffoli, susamielli, pasta reale, mostacciuoli, roccocò.
Un dolce leggendario: la Pastiera
Comincia con l’Epifania e trionfa a Pasqua la preparazione della pastiera, leggendaria come tutti i piatti rituali legati al ciclo dell’anno. Si racconta che, in una primavera radiosa della notte dei tempi conquistati dal canto della sirena Partenope, gli abitanti del luogo volessero farle omaggio dei doni della terra.
Sette fanciulle bellissime furono scelte per deporre ai suoi piedi ricotta, grano bollito nel latte, zucchero, strutto, frutta candita, uova, acqua di rose e fiori d’arancio.
La sirena, grata delle offerte, le raccolse in grembo per portarle con sé. Dalla divina mescolanza è nata la pastiera.
Non vi peserà il lavoro necessario per ottenere il dolce se penserete, facendola, al canto ammaliatore di Partenope.
Mettere dunque 220 g di grano duro in una ciotola, coprirlo d’acqua e lasciarlo macerare per otto giorni, cambiando ogni giorno l’acqua. Pesare 250 g di grano bagnato e scolato, e farlo bollire per 15 minuti, primo di scolarlo nuovamente e ricoprirlo con mezzo litro di latte bollente. Aggiungere nel recipiente la scorza di mezzo limone, un pizzico di sale e far cuocere il tutto a fuoco lentissimo per circa un paio d’ore, finché il latte non si sia assorbito. Togliere la scorza e versare il grano su un piatto perché si raffreddi.
Preparare intanto una pasta frolla con 300 g di farina, 150 g di zucchero e tre tuorli d’uovo. A parte mescolare 500 g di ricotta freschissima passata al setaccio con 300 g di zucchero, 80 g di cedro ed arancia candita a pezzetti, amalgamandoli con acqua e fiori d’arancio, 6 tuorli, il grano raffreddato e 4 albumi montati a neve. Foderare una tortiera di cireca 30 cm di diametro con la pastra frolla, versrvi il ripieno, livellarlo e decorarlo con listelli di pasta. Cuocere per un’ora e mezza in forno a 180°C. Quando sarà fredda, cospargere la pastiera con zucchero a velo.
Consumarla dopo un paio di giorni sarà, se possibile, ancora migliore.
Il babà al rum
Nel fumetto Asterix, il protagonista principale, insieme al suo inseparabile amico Obelix, il druido Panoramix e tutti i compagni di avventura, abitano in un piccolo villaggio dell’Armorica, circondato di accampamenti romani, uno dei quali si chiama Babaorum, un improbabile nome dal suono latino, che alle orecchie francesi odierne si presenta come una battuta giocata sull’assonanza con il “baba au rhum”, dolce ben conosciuto in Francia.
Il babà, sottintendendo al rum, è anche, o forse soprattutto, un dolce napoletano, portato a Napoli dai Monzù nella prima metà dell’ottocento da Parigi, come erano arrivate dalla Francia tante altre cose nel corso dei secoli, la buatta, la zoza, le zantraglie e il café chantant con Ninì Tirabusciò.
Il babà, inopinatamente, è nato in Polonia. E’ troppo complicato spiegare qui il come e il perché, trovate tutto su Wikipedia e su tanti altri siti. Nella storia è coinvolto Stanislao Leszczyński, re di Polonia amante dei dolci, siamo agli inizi del settecento, sua figlia Maria, diventata regina di Francia per aver sposato Luigi XV, pasticcieri e cuochi di Parigi, per finire con i pasticcieri partenopei, alla cui sapienza dobbiamo la napoletanità del “babbà”.
Qui da Augustus, per il babà si segue la ricetta tradizionale (il babà figura fra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali - P.A.T. -della regione Campania), facendo un impasto di farina, uova, burro fino e zucchero, la doppia fermentazione, la cottura in forno, la giornata di asciugatura, la bagna con sciroppo aromatizzato, la pennellatura di gelatina.
Detto così sembra semplice, le cose, però, sono sempre più complicate di quello che sembra.
Fare un babà come si deve richiede i tempi giusti e materie prime di qualità. Qui da Augustus i pasticcieri fanno le cose come devono essere fatte, senza risparmi e scorciatoie.
Al banco pasticceria troverete il prodotto finale del suo lavoro, un babà leggero, una nuvola che miracolosamente resta confinata nella pirottina, profumata di rum ed albicocca.
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